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17:22:42 Viviamo nell’era dell'eterno presente. Ci hanno tolto ogni speranza, ci hanno rubato ogni sogno, e quando chi di noi giovani espone idee e pensieri per cambiare e migliorare questo mondo relegano le nostre parole a qualcosa legato all’età.

Ci hanno bombardato con la retorica del "niente può cambiare", con “tanto è sempre stato così e sarà sempre così”. Da quando mettiamo piede a scuola ci ripetono che “dobbiamo pensare solo a noi stessi”, che “lì fuori è una giungla, tutti contro tutti, e se volete emergere, se volete diventare qualcuno dovete pensare a voi stessi”, senza mai mettere in discussione quello che c’è la fuori e quello che i saperi e la conoscenza, i luoghi della formazione e della cultura possono fare per cambiare quello che c’è fuori. Da anni subiamo bombardamenti di questo tipo, ed ora non fa tanto fatica ad emergere la rassegnazione soprattutto delle nuove generazioni.

La conseguenza è il nichilismo, il non dar valore alla vita, la violenza della rassegnazione che non ha paura per paura, che non guarda in faccia a nessuno. Violenza che è il prodotto della violenza della società e del modello economico in cui viviamo: si sfoggiano i coltelli, le lame, le pistole; si ferisce qualcun altro senza motivo, per uno sguardo di troppo.

E ora pensano di risolvere tutto con la criminalizzazione - lungi da noi difendere o minimizzare l’atto dell’accoltellata, dello sparo, del pugno, del calcio o qualsiasi altro violento e prevaricatore, e cogliamo l’occasione per rinnovare la solidarietà e la vicinanza ad ogni vittima - di chi compie questi gesti, con il chiamarli ripetutamente “branco”, “belve”. Che volete fare? Pensate che punirli e mandarli in carcere sia l’unica e giusta soluzione? Magari “buttando anche via la chiave”, “metterci dentro anche la famiglia”, magari anche ergastolo e pena di morte, no? E’ la vostra soluzione a tutto, infatti in tutti questi anni la cultura dell’oppressione e della punizione ha fruttato, vero? Chi è stato punito poi non ha commesso più reati, giusto? I fatti paiono dimostrare il contrario, ovvero il fallimento delle vostre politiche oppressive e punitive. E i vostri appelli al buon senso e alla morale, le vostre parole e i vostri articoli dal tono paternalista e superiore non sposteranno le cose di una foglia morta. Parlate di omertà, del clima omertoso che regna nel quartiere dove non si parla, non si denuncia, fingendo di non sapere - o omettendolo perché non vi conviene - che “o’ sistema”, mafioso, violento, bastardo, se si regge in piedi di fronte anche a queste vicende disumane è perché si riproduce e si regge su una forte consenso, costruito non tanto - come vorreste far credere - sulla condivisibilità degli atti violenti che si compiono, sulla coscienza, ma piuttosto sulla sostenibilità e sul ricatto economico che vive chi cerca di sopravvivere al suo interno. Se non si mina alle basi, se non si danno certezze economiche e culturali a chiunque, chi sopravvive in quei contesti di certo non trova più conveniente denunciare rispetto a opprimere dentro di sè quel che succede, chiudere gli occhi e sopportare. E chi si rivolge soltanto alle coscienze compie un fondamentale errore: l’essere fuori dalla realtà, che è fatta di povertà, di sfruttamento, di ricerca della sopravvivenza. Agire sulle coscienze non serve se non si accompagna questo alla solidarietà, al mutualismo, alla resistenza, alla resilienza, oltre alle politiche necessarie per il riscatto di tutte e tutti.

Nel dibattito allucinante di queste settimane non c’è stata una parola sul come fare per costruire città educative e comunità educanti, sul come ri-educare questi soggetti; non una parola sulle responsabilità che hanno queste politiche classiste e esclusive; non una parola sul ruolo sociale della scuola, che in questi anni ha avuto una forte accentuazione classista ed è diventata un luogo in cui si classifica e si esclude, grazie alla retorica della competizione e al mantra della meritocrazia, strumenti per espellere i più deboli, chi non può permettersi gli studi e chi già è a rischio; non una parola sugli strumenti politici e pedagogici che bisognerebbe mettere in campo per affrontare questi fenomeni sociali, e non trattarli come casi di cronaca ogni volta che questi assumono una non poca visibilità mediatica.

Nel dibattito invece è emerso altro. Chi è in malafede, chi ha interesse nel riprodurre l’esistente, chi ha interesse nel costruire una narrazione della “Napoli male contro la Napoli bene” - quella che invidia, che ha un “risentimento istintivo” come scrive in maniera imbarazzante il Mattino - e, dopo le manifestazioni di solidarietà come quella per Arturo - nostro coetaneo e studente come noi, accoltellato a via Foria da altri nostri coetanei - nella “Napoli bene che si ribella alla Napoli male”, chi ha interesse nel mantenere vivo questo stato di cose e chi non ha interesse a cambiare, e allo stesso tempo chi si scrolla di dosso le responsabilità con qualche articolo moralista, dice che questo è l’ “effetto Gomorra”, come hanno affermato in molti - dal sindaco di Napoli De Magistris all’avvocato difensore del 16enne che ha accoltellato al Vomero un altro 18enne, Bruno Carafa, che ci conferma con queste sue parole l’inadeguatezza e l’incapacità della classe dirigente del nostro Paese nel leggere i fenomeni sociali e nel dare risposte.

Una volta era il wrestling in televisione, altre volte la colpa era dei videogiochi, questa volta di una serie tv. Infatti è noto a tutte e tutti che gli adolescenti si masturbano di più dopo che hanno visto su Netflix la serie “Big Mouth” e che siamo tutte e tutti gay e lesbiche dopo che abbiamo visto un film di Ozpetek.

In realtà l’ “effetto Gomorra” non è altro che un capro espiatorio, un qualcosa che serve a non far parlare, al massimo accennare, alle condizioni di vita e ai bisogni materiali della nostra generazione, la prima dal dopoguerra a vivere peggio dei propri genitori; serve a non far parlare di welfare, della necessità di costruirne uno individuale, universale e non basato ancora sulla famiglia, per mettere nelle condizioni ciascuna persona, dal figlio del Vomero al figlio di Scampia, di Forcella o di Napoli Est, di liberarsi e staccarsi dalle condizioni di partenza della propria famiglia, di emanciparsi, di auto-determinarsi; serve a non far parlare di diritti, che ormai sono garantiti solo a chi tiene i soldi per comprarseli; serve a non far parlare delle condizioni di chi lavora, a non far parlare di quello che si studia, di come si studia; serve a non far parlare dei diritti sociali, quelli che dovrebbero essere posti a fondamento della società, e della necessità impellente del garantirli gratuitamente a chiunque, universalmente - diritto allo studio, l'accesso all'istruzione (dall'asilo nido all'università), il diritto alla salute, al reddito, alla mobilità, alla cittadinanza - ma che non lo sono perché i servizi essenziali sono liberalizzati, sono privatizzati, sono considerati merce: chi può permetterseli, pagando tanto, accede ai servizi pubblici essenziali, chi no si deve arrangiare come può, mentre dovrebbero essere le basi per costruire una società dove la violenza e lo sfruttamento non abbiano spazio.

Quello che sta succedendo in questa città è il chiaro rumore che fa il vostro mondo quando crolla, e ora tentate di dividere tra buoni e cattivi per sentirvi assolti e per fuggire di fronte alle ingiustizie che avete contribuito a creare.

Per risorgere, per cambiare, per edificare una nuova società è questa la nostra ricetta, consapevoli che non basta e che ci vuole l’impegno, la memoria e la partecipazione di tutte e tutti, e noi studentesse e studenti saremo in prima fila.

 

           


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