CASERTA. «Circa 22.000 abitanti, pochi servizi, tagliati fuori dalla città da una strada ferrata, spazi sportivi insufficienti e vetusti, e sugli spazi verdi c’è molto da fare e da dire. Chi vive in questo quartiere si abitua presto ad orientarsi nel suo reticolo di strade. Un reticolo che si ammaglia alla città grazie ad un ponte, dei passaggi a livello ed un sottopasso.
Un reticolo di strade, che sono talmente subordinate l’una all’altra, che quando ne chiudi una le hai bloccate tutte.
Avrete capito che parlo del quartiere Acquaviva, uno dei quartieri popolari di Caserta, quello più dimenticato proprio perché tagliato fuori dall'altra parte della città, quella che conta. Sembrerà strano ma proprio una strada potrebbe migliorare notevolmente la qualità della vita in questo pezzo di città. Una strada che dovrebbe già esistere, che però si interrompe in mezzo al nulla. Una strada che finalmente renderebbe fruibile l’unica area verde del quartiere che invece versa in condizioni di abbandono assoluto, diventando facile preda di scellerati che ne approfittano per sversare di tutto.
Via Feudo San Martino, la strada ai più sconosciuta, ma che se imboccata porta direttamente in quella vasta area incolta che resta tra via Acquaviva e viale Carlo III°, e che nel suo virtuale proseguimento verso sud, sfocia in via Alcide De Gasperi nel Comune di San Nicola la Strada, proprio nei pressi delle Casermette, ad un passo dall'imbocco di viale Carlo III°.
Basta poco per immaginare quale impatto positivo sul decongestionamento del traffico veicolare potrebbe venire dall'istituzione di una arteria del genere, una volta collegata attraverso le secondarie con via Acquaviva (che è a senso unico). Invece, uno sforzo di immaginazione in più bisogna farlo per riuscire a figurarsi quello che potrebbe diventare l’area interessata dall'azione di urbanizzazione, che è tesa, quasi, se non esclusivamente a sviluppare e organizzare attraverso la creazione di un’opera strutturale, la piattaforma necessaria ad avviare i processi di cambiamento di comportamento e costume della società, e non diventare il volano per nuovo cemento come qualcuno potrebbe intendere o far trasparire.
La società migliora se gli migliori la qualità della vita, e per far sì che ciò accada gli devi dare i mezzi e le possibilità per farlo.
Piste ciclabili, percorsi benessere, parco urbano attrezzato, orti urbani o addirittura spazi dedicati all'agricoltura di quartiere, questo è quello che potrebbe diventare il nostro quartiere!
Insomma, una visione green di quell'area che fino a pochi decenni fa era coltivata dai residenti, magari a tabacco o per il sostentamento familiare. Questo nel pieno rispetto di quei vincoli della Soprintendenza ai Beni Culturali che già insistono sul territorio, ma che a quanto pare sono particolarmente stringenti solo per un lato del viale Carlo III°.
Particolarmente entusiasmante è l’idea di destinare parte di questo territorio all'istituzione di orti urbani, peraltro si tratta di un progetto nazionale di Italia Nostra, che si rivolge a tutti coloro che, privati o enti pubblici, possedendo delle aree verdi le vogliano destinare all’ “arte del coltivare” nel rispetto della memoria storica dei luoghi e delle regole “etiche” stabilite da Italia Nostra in accordo con l’ANCI (Associazione dei comuni di Italia) con il quale è stato sottoscritto un protocollo d’intesa e al quale hanno poi aderito Coldiretti e la Fondazione di Campagna Amica.
L’idea sociale di condividere un orto, magari recuperando delle cultivar antiche ed in via d’estinzione, riappropriandosi delle tradizioni legate alla terra, interagendo con associazioni locali o scuole, porta di fatto alla trasformazione di quello che si potrebbe definire una sorta di parco “colturale” in uno “culturale”.
Inoltre, la possibilità di poter vendere i prodotti a prezzi economici tenendo conto della filiera corta, anzi cortissima, è un vantaggio in più. Step successivo o l’evoluzione dell’orto urbano è l’Agrihood o italianizzando Agricoltura di Quartiere, una visione diversa del modo di vivere gli spazi della città, attraverso la condivisione sociale dello spazio con tutti i membri della comunità, dove l’agricoltura diventa il momento di catalizzazione sociale ed allo stesso tempo si opera una riqualificazione delle aree verdi abbandonate e quindi della città.
Il modo in cui una città utilizza e riutilizza lo spazio ha un forte impatto sulla sua identità, sul benessere degli abitanti e anche sull’economia locale. In un momento come quello attuale in cui si indaga sulle soluzioni urbanistiche da adottare per rispondere al fenomeno crescente dell’urbanizzazione senza tralasciare aspetti di sostenibilità, le cosiddette agrihood sono una delle idee più interessanti da esplorare. Il concetto di agrihood, che potremmo tradurre in agricoltura di quartiere, è ancora fluido, in via di definizione, perché tutt’ora in evoluzione. In termini generali si tratta di un modello alternativo di sviluppo e riqualificazione dei quartieri, dove l’agricoltura diventa il mezzo principale attorno il quale costruire o ri-costruire un senso di comunità. Un progetto di rigenerazione urbana dove si fondono aspetti sociali, economici e di sicurezza alimentare.
Uno fra gli esempi più virtuosi e meglio riusciti è sicuramente quello sviluppato in un quartiere di Detroit, gestito dalla Michigan Urban Farming Initiative (MUFI).
Si tratta di un’area che comprende una fattoria, un frutteto, un giardino sensoriale per bambini, per un totale di 3 acri (circa 12mila mq). Dal 2012 quella che è stata definita la prima agrihood urbana sostenibile degli Usa ha distribuito oltre 50mila tonnellate di prodotti a residenti, organizzazioni no-profit e imprese.
A volte, però, non serve andare troppo lontano per scoprire realtà interessanti.
In Italia forse un modello di agrihood come quello sorto a Detroit non esiste ancora, ma c’è chi ci ha provato e continua a provarci a investire in comunità agricole a pochi passi dai centri urbani. È il caso dell’Agrivillaggio che sta sorgendo a Vicofertile, a pochi di chilometri da Parma, e che si sviluppa intorno a un’azienda agricola, fondata da Giovanni Leoni, che ha avuto l’idea di trasformare la semplice coltivazione in un modello di vita alternativo. Grazie alla collaborazione con le Facoltà di Agraria, Architettura e Scienze naturali dell’Università di Parma e con il Politecnico di Milano che ha studiato la parte energetica del progetto, è stata sviluppata una piccola comunità che offre ortaggi e frutta di stagione di alta qualità ma che è anche un luogo di relazione e scambio. Lo so, qualcuno adesso storcerà il naso affermando che a Caserta certe cose non si possono fare. Perfetto, questa è l’affermazione più sbagliata in assoluto. Tutto si può fare, basta crearne i presupposti, incanalare le risorse e utilizzare gli strumenti opportuni. Lo strumento affinché anche il quartiere Acquaviva possa finalmente assurgere a quartiere modello esiste e si chiama P.U.C. Piano Urbanistico Comunale. Perché è questo il PUC che ci aspettiamo per la Città, meno cemento e più contenuti. Potremmo parlare anche di PAC Piano Agricolo Comunale, magari la prossima volta!
Edgardo Ursomando